sabato 26 dicembre 2020

Gli auguri di Natale che non ti aspetti


 

Gli inevitabili bilanci (propri) di Natale, le domande (ovviamente altrui) su quando troverai una moglie, un marito, un lavoro serio, quando farai il secondo figlio o il concorso per entrare nella pubblica istruzione e/o amministrazione.

Più forte di tutto questo ci può essere solo il messaggio di auguri di qualcuno che ti ha amato, che hai amato e che il tempo, troppo lentamente o troppo velocemente, ha avvolto nel silenzio.

 

Arriva tardi, quando gli avanzi sono stati conservati nei tupperware, coperti dalla carta stagnola e ibernati nel frigorifero. Arriva che è ora di cena e tu non c’hai fame, ci mancherebbe, eppure c’è un angolino misterioso che non è stato raggiunto dal cibo e dalla sensazione di sazietà.

 

Sgrani gli occhi sullo smartphone, perché oltre al danno, è in arrivo la beffa.

Non puoi fare spallucce e simulare strafottenza, come vorresti, perché purtroppo non è manco una catena, una frase di Osho, di Gio Evan, una gif, non c’è manco un Babbo Natale glitterato o tamarro.

C’è il tuo nome, per esteso, senza diminutivi.

 

Chissà se arriva tardi perché, dopo ventiquattro ore di di nomi che sbucano e saltano dalla rubrica, a un certo punto, per sfinimento, è zompato fuori anche il tuo.

Chissà se invece quel messaggio sognava di essere una risposta al tuo, che non hai mai scritto.

Qualcuno dice che nel nonsense il senso c’è sempre, eccome. Boh.

Menomale che oggi è Santo Stefano, non è il tuo onomastico e non c’è rischio di ricevere auguri.

Gli avanzi, scaldati, son più buoni di ieri, perché dopo una notte in frigo pare si siano ulteriormente insaporiti.


Illustrazione di Alessandra De Cristofaro


domenica 2 agosto 2020

Amen



Amore e bollore

Confondono le ore.

Ventilatore contro il tuo sudore

Una goccia ti scivola dalla fronte

Corre fino alla punta del tuo naso

E da lì si tuffa sul mio viso

a pochi centimetri sotto il tuo.

 

Amore e bollore

Confondono le ore.

Condizionatore contro il tuo sudore

La tua goccia,lancetta di un orologio

che segna un altro tempo

La pila è in perfetta salute

Ma batte i piedi a terra a modo suo

Regolare ma non convenzionale.

 

Amore e bollore

Confondono le ore.

Soffio un po’ di fiato contro il tuo

sudore

Un contagocce non ce l’ho e perdo il

conto

Pioggia delicata sulla terra

sopravvissuta all’afa

Il tempo sbanda, rallenta

Poi preme dolcemente la frizione

Frena.

 

Amore e bollore

Confondono le ore.

Qualche minuto di eternità.


sabato 11 luglio 2020

Non ad agosto e non a settembre


Adesso, proprio adesso.
A metà luglio,
non ad agosto e non a settembre.

Il sole asciuga in fretta

i panni stesi ad asciugare
mente abbacchia lentamente le intenzioni.

Prendere esempio dal sudore
che si lascia precipitare
dalla tempia alla mandibola.
Si chiede forse dove andrà a finire?
Si gode il piacere leggero della discesa.

Adesso, proprio adesso.
A metà luglio,
non ad agosto e non a settembre.

domenica 10 maggio 2020

Una cassa di te (senza accento)



“Poco prima che il nostro amore finisse, mi hai detto“Sono stabile come una stella polare”.
Ed io ho risposto: “Sempre nell'oscurità, come si fa a trovarla?”.
Comincia con questi versi una delle più belle canzoni sull’amore che continua dopo la separazione.
“A case of you”, questo il titolo, è la penultima traccia di “Blue” di Joni Mitchell, il suo album capolavoro che l’anno prossimo compirà cinquant’anni.
Una canzone delicatissima, in cui è difficile capire dove finisca la bellezza e dove cominici il dolore, a tratti perfino buffa, come quando il testo nomina il paese natale della sua autrice (il Canada) e lei ne approfitta per intonare un frammento dell’inno nazionale.
In un concerto londinese, eseguendo “A case of you” da sola, accompagnandosi col dulcimer, pare che Joni abbia introdotto la canzone dicendo: “Parla del primo rossore dell'amore, ma considerato dopo che l'infatuazione è passata e il romanticismo si è sbriciolato”.
Si dice che sia rimasta con gli occhi chiusi dopo averne terminato l’esecuzione.
Tali dichiarazioni ci fanno ascoltare diversamente perfino il bellissimo ritornello:

“Sei nel mio sangue come vino sacro
Sai di amaro e di dolce
Oh, potrei bere una cassa intera di te, mio caro
E continuerei a reggermi sulle mie gambe”

La metafora alcolica è perfetta per parlare di un amore di cui, sebbene ci stordisca, non ne abbiamo mai abbastanza. Eppure, se di una relazione si parla al passato, quella che apparentemente suona come una promessa cieca di devozione, si capovolge nel suo significato: i versi stanno dicendo che la passione si è fermata prima di trasformarsi in veleno, senza mettere in ginocchio l’individualità e l’amor proprio.
Come si fa a parlare bene e male della stessa cosa contemporaneamente, con toni poetici ma restando ancorati all’amara verità? Anni dopo, ripensando a quando  ha scritto e inciso l’album “Blue”, Joni Mitchell disse: “Nella mia voce non c’era neanche una nota disonesta. In quel momento della mia vita non avevo alcun tipo di difesa personale. Mi sentivo come il cellophane attorno a un pacchetto di sigarette. Mi sembrava di mostrare al mondo ogni mio segreto e non riuscivo a fingere di essere forte. O di essere felice. Il vantaggio fu che anche nella musica non c’erano difese”.

A lungo ci si è chiesto per chi abbia scritto “A case of you”, e tra gli indiziati ci sono nomi illustri, da James Taylor (che nella versione in studio suonava la chitarra acustica) fino ad arrivare a Leonard Cohen. Ma l’indiziato numero uno resta Graham Nash.
Lui, per stare con Joni, aveva lasciato la sua prima moglie, e aveva cambiato continente, trasferendosi in America dall’inghilterra. Ma i pettegolezzi sull’identità della musa ispiratrice perdono di’importanza quando, dopo il primo ritornello, Joni canta uno strano verso: “Sono terrorizzata del demonio e sono attratta da quelli che non ne hanno paura”.

In questi decenni hanno reinterpretato “A case of you” diversi artisti con la a maiuscola, compresi Prince e Tori Amos, giusto per citarne un paio. Ma, a parte l’originale, la mia versione preferita è quella di Salvador Sobral, in un suo disco live di pochi anni fa: privato della sequenza armonica introduttiva che l’aveva reso inconfondibile, il brano è strumentalmente ridotto all’osso, affidato a un minimalissimo pianoforte da lui stesso suonato.
Questo folletto portoghese, che si nasconde dietro i capelli e dentro una giacca che gli va evidentemente troppo grande, fino a farlo sembrare uno spaventapasseri, nella terza strofa, dopo aver cantato: “Ricordo la volta che mi hai detto “Amare è toccarsi l’anima”, per un attimo soltanto alza la voce.
E non in un punto a caso, ma prima di dire: “Di sicuro tu hai toccato la mia”: l’unica frase sicura  in un testo straziante.

Ci sono diverse immagini poetiche in questo brano, ma quella che amo maggiormente è la più semplice in assoluto. Torniamo all’inzio. Lui, che si chiami Graham, Leonard o James, prima che il loro amore finisca si definisce stabile come la stella polare. E come risponde, quando lei lo provoca, accusandolo di stare sempre nell’oscurità, chiedendo come sia possibile trovarlo?
Risponde così, con una frase semplice e bellissima: “Se mi vuoi, mi trovi al bar”.
Come se l’umanità fosse un minuscolo paese di provincia, con un’unica piazza e un solo bar.
Rilke diceva che l’eterno parla a bassa voce col quotidiano, o viceversa, non mi ricordo.  Di sicuro il tragitto che li separa è brevissimo.


https://www.youtube.com/watch?v=e5JnWhEqq1s

giovedì 2 aprile 2020

Puzzette


R., 8 anni, durante la videochiamata odierna su whatsapp, a un certo punto deraglia bruscamente off topic. Forse lo fa perché ne sente l’esigenza, può darsi che sia stanco.
Sebbene i sessanta minuti in cui lo aiuto a fare i compiti volino via molto velocemente,  glielo concedo. Magari è la volta buona che il cellulare di suo padre trova pace. Quella videocamera forse inquadrerà finalmente un punto fisso e il mio stomaco smetterà di fare la centrifuga insieme a lei.



R: - Lorenzo, ti piacerebbe essere un bullo?
Io: - Un bullo, io??? Mai e poi mai!

Segue mio inevitabile, doveroso, breve ma intenso monologo sul bullismo. Dal modo in cui l’ho preso sul serio, capisco di essere un po’ stanco anch’io.
Quando finisco di dire la mia, sperando di averlo fatto in modo convincente e non troppo retorico, gli rilancio la palla.

Io: - Perché me l’hai chiesto, R.? A te piacerebbe essere un bullo?
R: - Sì!
Io: - E come mai? Per fare cosa?

Quando ascolto la sua risposta rido e contemporaneamente tiro un sospiro di sollievo.

Provo a tranquillizzarlo, a dirgli che per fare ciò che desidera non serve essere un bullo nè tantomeno diventarlo. Ma in verità non sono sicuro di averlo convinto: col senno di poi, temo che che il suo desiderio non fosse generico ma collocabile precisamente nel cosiddetto qui e ora.



Chissà se c’entra qualcosa quel letto su cui lo intravedo, telefono iperattivo permettendo, col quadernone sulle ginocchia mentre prova a fare i compiti. Lo vedo accovacciato lì sopra  per sessanta minuti al giorno e neppure tutti i giorni, ma chissà quanto tempo starà passando lì sopra in questi giorni.

Chissà se c’entrano qualcosa la troppa permanenza nel suo bilocale, che ha grandi macchie d’umido sul soffitto, e la sopportazione logistica col fratellino minore, che sfida la sua e la mia concentrazione saltando su quel letto e gridando a intervalli regolari “Mamma!”.
Conosco l’ironia di R., estrosa e un po’ visionaria. Oggi, ad esempio, alla fine della videochiamata mi ha salutato dicendo: “Ci vediamo domani, lumaca!”. Eppure non sono proprio sicuro che prima stesse scherzando quando, in risposta alla mia domanda, ha detto:
Io vorrei essere un bullo per fare le puzzette nei cortili degli altri!

lunedì 23 marzo 2020

Lasciarsi ispirare da un'emoticon



Ḗ possibile allenarsi a guardare l’altro concentrandosi su quello che c’è e non su quello che manca. Difficile, ma non impossibile. Alcuni esaltano questa possibilità come un pregio, se la rivendono come un merito. In realtà è solo un allenamento che, come molte altre pratiche, se esercitato con la dovuta costanza, non tarda a premiarti con dei risultati.

Facilita ad esempio la nascita di vincoli affettivi germogliati in contesti ostili e in barba a prerequisiti del tutto scoraggianti.
C’è sola una piccola controindicazione: quando ti stanchi di vedere il bicchiere mezzo pieno e metti l’altro sull’uscio, perchè fermo sulla soglia ti fa solo ombra, può diventare difficile dargli il calcio definitivo nel sedere, quello utile a spazzarlo fuori dal tuo campo visivo.
Succede perché hai interiorizzato l’allenamento allo sguardo positivo e questo presunto pregio, ormai abusato, ti si ritorce contro tramutandosi nel suo opposto, cioè in un difetto.
E allora bisogna ripescare l’antico consiglio dei nonni, quello che invitava a pensare alla salute. Avere l’intelligenza di fare per una volta quello che non fai mai: capovolgere completamente la prospettiva, concentrando l’analisi sull’altra parte, quella volontariamente trascurata. Sparare il faro sulle cose che in precedenza tu stesso hai spinto negli angoli, zumare sul bicchiere mezzo vuoto, su ciò che non c’è e di cui, ammettilo, senti la mancanza.
In casi estremi, imparare dalla semplicità brutale di un’emoticon può diventare l’uscita d’emergenza verso la salvezza. Ispirarsi ad un’emoticon serve a capire che è facile, basta veramente poco, anche fuori dallo schermo del telefono.
Al polso infatti è sufficiente eseguire una mezza pirouette per trasformare un pollice all’insù in un pollice verso.