Si può essere chiusi verso l’altro per diverse ragioni.
Ben venga quando avviene
per paura, perché in tal caso il gesto del passo indietro comunica il suo
esatto contrario: se ci tieni, vieni tu verso di me, ma fallo piano piano, con gentilezza.
Spesso
però ci si chiude all’altro per assenza di curiosità, per una forma di
parsimonia del tutto gretta, per insufficienza di apertura mentale, per
sudditanza a quelle due o tre convinzioni di cui si è in possesso, perché, si
sa, meno sono e più bisogna tenersele strette.
Consumismo
dei rapporti umani? Magari! L’impressione più ricorrente è che, al contrario,
tutto resti in vetrina, nel cestone delle offerte, o peggio ancora in deposito,
in un albo-limbo dove il tuo curriculum deambula come un anima in pena in
attesa che le vanga assegnato un corpo.
Sono
lontani i tempi in cui “Non mi serve niente” lo dicevamo con educato distacco
ai venditori ambulanti dai quali ci sentivamo importunati in spiaggia, agli
operatori di call center che ci svegliavano durante la pennica.
Ora quelle
quattro parole le rivolgiamo con disinvolta arroganza perfino a chi ci offre il
suo aiuto in un posto in cui siamo addentrati di nostra volontà.
E se non ci
serviva niente, cosa siamo entrati a fare? Stavamo giusto dando un’occhiata,
ovviamente. Così, per ingannare il tempo. Non si può, gli occhi non ce li
abbiamo forse per guardare?
Forse
è vero che alcuni di noi vivono per guarire dalla ferita del rifiuto. Ma il
fallimento, che in tanti ambiti rientra tra le variabili, in questo settore
sembra non essere contemplato. Neanche una sbandata, una deviazione rispetto
alla meta, come incoraggiamento, per cambiare aria, per allungare la miscela
con un altro ingrediente.
Poco
male comunque: abbiamo tutti ormai un dispositivo che ci localizza. Perfino
quando ci nascondiamo sotto il letto perché non vogliamo farci trovare da
nessuno.