giovedì 27 dicembre 2018

Cuori Marroni di Natale


A Natale siamo tutti più paraculi.
E peggio degli auguri sgraditi di un ex che, con andatura circospetta, sonda il terreno nascondendosi dietro la stella cometa del presepe, ci sono solo gli auguri di un tuo amore abortito.
Qualcuno per cui sei stato un misto tra un amore e un amico (in alcuni casi addirittura migliore amico, perché si sa, dopo tanta sfiga, la fortuna ti si presenta con gli arretrati).
Qualcuno che, attenzione, non ti ha manco promosso a trombamico, così da negarti perfino la consolazione, quando ci saresti arrivato col senno di poi, di dire: "Vabbé dái, era solo sesso".
 È difficile elaborare il lutto di qualcosa mai nato, mettere fine a ciò che non è cominciato.
I giovani d'oggi la chiamiamo "friendzone", che detta in inglese sembra una cosa più figa, ma che resta di fatto un girone dantesco senza maniglia antipanico, un lungo ammollo nella candeggina.

Quando non ci sente da una vita, ma si continua a sguazzare nell'ambiguitá, mandare una foto, una gif o un video natalizio è ovviamente troppo poco.
Scrivere "Ciao Tizio, come stai?" o un "spero tu stia bene" (ancor più elegante perché, non ponendo domande, non pretende risposte) sarebbe invece già troppo.

E dunque?
Ci si esibisce nell'arte in cui si è più bravi, quella del lanciare la petrella per poi nascondere la manella.
Un miserrimo "Auguri di buon Natale", nobilitato dall'emoticon che per qualcuno ha ancora un valore ma che su whatsapp, poiché abusata, significa tutto e niente: quella del cuoricino rosso.

Cosa traduce il cuoricino rosso?
È come il supercalifragilistichespiralidoso di Mary Poppins?
È l'emoticon della supercazzola, adeguata però ai tempi attuali, e quindi munita del dono della sintesi?
Vuol dire ancora "Ti voglio bene"?
Non generalizziamo dai, dipende dai casi.
Mandarla a qualcuno che hai "friendzonato" e che non senti da una vita significa per caso illuderlo ancora?
Ma no dai, se è lui che si fa i film, problemi suoi, no?
Magari è un copia e incolla mandato a tutta la rubrica, estetista e portiere compresi, per questo non compare il tuo nome, né un generico "caro" o "cara", così che vada bene per tutti i contatti di ambo i sessi.
Insomma, io lascio sto cuoricino e vediamo che rispondi tu.
Che alla fine, capiamoci, io volevo solo essere gentile e farti gli auguri di Natale, e un cuoricino, salvo che tu non sia paranoico, non significa proprio niente.

In questi giorni va in radio una canzone bellissima, dedicata a una stronza, e parla di un cuore strappato che invece di essere rosso è marrone. Si dovrebbe adeguare anche whatsapp, e inserire, per il 2019, l'emoticon del cuoricino marrone.
Perché, quando si è stronzi veramente, ci si ripropone a galla anche dopo che lo scarico è stato tirato.

domenica 28 ottobre 2018

No (grazie?).





Si può essere chiusi verso l’altro per diverse ragioni. 
Ben venga quando avviene per paura, perché in tal caso il gesto del passo indietro comunica il suo esatto contrario: se ci tieni, vieni tu verso di me, ma fallo piano piano, con gentilezza.

Spesso però ci si chiude all’altro per assenza di curiosità, per una forma di parsimonia del tutto gretta, per insufficienza di apertura mentale, per sudditanza a quelle due o tre convinzioni di cui si è in possesso, perché, si sa, meno sono e più bisogna tenersele strette.

Consumismo dei rapporti umani? Magari! L’impressione più ricorrente è che, al contrario, tutto resti in vetrina, nel cestone delle offerte, o peggio ancora in deposito, in un albo-limbo dove il tuo curriculum deambula come un anima in pena in attesa che le vanga assegnato un corpo.

Sono lontani i tempi in cui “Non mi serve niente” lo dicevamo con educato distacco ai venditori ambulanti dai quali ci sentivamo importunati in spiaggia, agli operatori di call center che ci svegliavano durante la pennica. 
Ora quelle quattro parole le rivolgiamo con disinvolta arroganza perfino a chi ci offre il suo aiuto in un posto in cui siamo addentrati di nostra volontà. 
E se non ci serviva niente, cosa siamo entrati a fare? Stavamo giusto dando un’occhiata, ovviamente. Così, per ingannare il tempo. Non si può, gli occhi non ce li abbiamo forse per guardare?

Forse è vero che alcuni di noi vivono per guarire dalla ferita del rifiuto. Ma il fallimento, che in tanti ambiti rientra tra le variabili, in questo settore sembra non essere contemplato. Neanche una sbandata, una deviazione rispetto alla meta, come incoraggiamento, per cambiare aria, per allungare la miscela con un altro ingrediente.
Poco male comunque: abbiamo tutti ormai un dispositivo che ci localizza. Perfino quando ci nascondiamo sotto il letto perché non vogliamo farci trovare da nessuno.

venerdì 21 settembre 2018

Stronzi dal cuore tenero


La gentilezza è un'arma potente e, come tale, andrebbe usata sempre con parsimonia. 
Restare gentili anche con gli stronzi  è una scelta interessante e, quando è possibile esercitarla, rivela un fascino sottile.

Buonismo a tutti i costi? Atteggiamento di presunta superiorità spirituale? Ma quando mai! Se sei nel mood giusto, si tratta di un gioco molto divertente, che può addirittura sfociare nel sadismo: un po' come parlare velocemente la tua lingua madre davanti a qualcuno di un'altra nazionalità, sapendo che non capirà manco una parola, giusto per vedere che faccia farà. 
L'ingenua incredulità dello stronzo improvvisamente spaesato, privato del suo ruolo, sopraffatto dalla tua stupida, immotivata gentilezza, ti ripagherà abbondantemente dello sforzo. 
Infatti, se ci aggiungi poi quel pizzico di empatia sufficiente, capirai quanto possa essere frustrante partire armati per una guerra contro ignoti e trovare invece un sorriso disinteressato o, nella peggiore delle ipotesi, un paio di spallucce serenamente menefreghiste.

Ci sono stronzi duri, a cui è difficile far guadagnare l'uscita.  
Eppure, perfino quelli che precipitano sul fondo del water producendo un secco "Plof!", sotto la superficie dura rivelano un cuore tenero. 
Peace, Love, e Vaffanculo taciuti che possono trasformarsi in grasse risate.

giovedì 19 luglio 2018

Vento scroccone


Se non si esagera nel farlo, prendersi in giro da soli può essere una cosa divertente. 
La pancia parla a bassa voce: sta a te decidere se fare orecchio da mercante o no.
E se, tra un’ambulanza, un clacson, e il suono di una notifica che non capisci se è arrivata a te o a chi ti sta accanto, la pancia ti dice che è meglio se tu e il tuo stato d’animo scomodo restate soli, perché solo così potrete guardarvi negli occhi, forse dovresti starla a sentire. 
E invece non ti assumi neanche la responsabilità di rifiutare il consiglio e fare di testa tua, fai vigliaccamente finta di non aver sentito.

Cerco due tra i miei confidenti di fiducia.
Di quelli che ti fanno parlare prima, raccolgono i dati e poi li analizzano insieme a te. Con le persone che tirano fuori dal cilindro soluzioni miracolose preferisco parlare di tutto il resto: il caldo, l’umidità, eccetera. Che almeno le loro intuizioni pazzesche servano per cose pratiche, terrene.
Alla prima confidente chiedo quando posso telefonarle, perché vive in un'altra città. 
Al secondo chiedo se possiamo vederci per un caffè. Con pippone sciolto dentro, a tradimento? No, no, dico a entrambi la verità: “Ho bisogno di parlarti”.
Nessuno dei due risponde, dice di essere impegnato o rilancia con un altro giorno e un altro orario. Silenzio assoluto, anche dopo ore. Che la voce della mia pancia siano riusciti a sentirla loro, da fuori? Che gli abbia detto “Lasciatelo solo, che male non gli fa”?

In assenza dei confidenti di fiducia, vado al bar di fiducia.
Saluti e convenevoli col caposala.
-Fuori o dentro?  
-Fuori, grazie.
Scelgo quale, tra i tavoli fuori. Chiedo un’acqua frizzante, poso lo zaino sulla sedia, entro in bagno a togliermi un po’ di sudore dalla fronte.
Quando torno fuori l’acqua è sul tavolo ma ci sono due bicchieri. Il caposala non ha visto che ero solo? Non ho mica detto di aspettare qualcuno. Sarà stata questa cameriera nuova, in prova? Avrà visto lo zaino e pensato a due persone, di cui una in bagno e l’altra al telefono, in disparte? Forse hanno portato due bicchieri perché questo stato d’animo che mi scarrozzo appresso è così ingombrante che lo vedono anche gli altri.
Fa caldissimo e tira vento. Chiedo una coppetta pistacchio e cioccolato, magari mi rinfresco. La ragazza nuova me la porta, con un misero tovagliolino che serve  a ben poco ora che il vento soffia sul gelato e lo scioglie, facendomelo colare sulle dita. Cerco il punto da cui precipita, oltre il bordo della coppa, per poter intervenire col cucchiaino, ma non basta: il gelato mi schizzichea su tutta la mano sinistra, corre veloce fino al polso.
Mi sembra una metafora della mia quotidianità: c’è qualcosa che eccede, che straborda pretendendo attenzione ma io non capisco dov’è che s’è rotto l’argine, dove contenere.
Mi innervosisco  e vado di lingua. La ragazza nuova mi guarda vagamente perplessa, si starà chiedendo che senso ha chiedere la coppetta se poi la mangi come se fosse un cono.
Con le dita azzeccose, che mi scoccio di andare di nuovo in bagno, mi accendo una sigaretta, ma in realtà la offro a questo vento scroccone: alerniamo un tiro lunghissimo lui e uno corto corto io, manco venti secondi e spengo il mozzicone.

Mi guardo intorno. Tre coppie, una famiglia e altri due solitari: una mia coetanea con fronte corrugata che picchietta la cannuccia sul bordo del bicchiere, un signore che guarda qualcosa a terra, forse uno scontrino che rotola, mosso dal vento scroccone.
Quasi quasi chiedo loro di metterci tutti e tre allo stesso tavolo, come fanno certe mamme che escono col figlio appresso. Potremmo far sedere i nostri stati d’animo vicini e imporgli di giocare tra loro anche se si sono appena conosciuti. Così noi, per un attimo, possiamo sospirare e lamentarci di quanto sia difficile essere genitori.
Niente. A distanza di pochi secondi il signore si alza e la mia coetanea chiede il conto.
Aveva ragione la pancia: niente incontri cumulativi, devo restare ancora un po’ solo soletto cone lui, questo stato d’animo ingombrante. Ora gli verso un po’ d’acqua nel suo bicchiere, che non abbiamo abbastanza confidenza per bere dallo stesso.
E finalmente lo guardo negli occhi.

mercoledì 4 luglio 2018

Due caffè



È tardi, esco senza aver fatto colazione.
Il primo caffè fa cilecca e non mi sveglia, nonostante si faccia aiutare da un tg sparato a tutto volume e da un gruppetto di persone che, commentandolo, mi costringono a conoscere la loro opinione sul nuovo governo. 

Ci riprovo pochi passi dopo, pochi metri più avanti. Il primo scossone dal sonno me lo danno l'alta temperatura della tazza e il senso di colpa negli occhi del barista, scordatosi della mia richiesta di tazza fredda.
In questo bar si parla dei mondiali. E con che enfasi, che trasporto, che volume, son passati pochi minuti dalle otto e siete tutti già così pimpanti, beati voi, ditemi come avete fatto.
A svegliarmi definitivamente è il suono della mia risata: "Se il Napoli andava ai mondiali, vinceva".
Ok, mi avete convinto. Buongiorno.

lunedì 12 marzo 2018

Cosa mi vuoi dire, Confusione?




Cosa mi vuoi dire, Confusione?
So che vuoi la mia attenzione.
Quanto sei scema quando rimetti in disordine quel cassetto che hai già aperto mille volte.
Mi fai ridere quando cancelli un rigo dalla mia presunta lista delle cose da fare, solo per il gusto sadico di vedermelo riscrivere.
Mi fai tenerezza quando dai la colpa alla luna piena.
Ma quando ti metti in mezzo ai due possibili finali di una decisione, impedendo loro di dialogare, mbè, là davvero mi  sposti la nervatura.
Una domanda: come fai ad essere più forte della stanchezza?
Eccomi Confusione, so che vuoi la mia attenzione.
Ehi, guarda che sto parlando con te.

venerdì 23 febbraio 2018

Erano italiani!



Nel progetto di italiano per stranieri che negli ultimi mesi mi ha visto coinvolto come insegnante, c’è una signora magrebina un po’ sui generis che ispira una simpatia pressoché immediata.
Una di quelle che però, a seconda dei momenti, possono tanto alleggerire la didattica quanto ostacolarla.
Zahra  (le attribuisco un nome di fantasia), è infatti un tantino accelerata:  spesso risponde alle domande senza ascoltarle, o addirittura prima che l’interlocutore abbia finito di formularle. 
Questo suo essere accelerata la fa talvolta deragliare, per quanto in buona fede, verso l’ostruzionismo nei confronti dei suoi compagni: risponde al posto loro o li corregge quando sbagliano, ovviamente prima che possa eventualmente decidere di farlo io.
Ha dato il meglio di sé già durante una delle prime lezioni, quando, per amalgamare la classe e abbassare il filtro affettivo, ho portato in aula la chitarra e provato a far cantare a tutti Quando sorridi di Neffa, di cui avevamo utilizzato i contenuti grammaticali.
Con il testo della canzone in mano e un’intonazione molto soggettiva, Zahra ha costantemente preceduto noialtri di un paio di battute, ostile a sincronizzarsi nonostante i miei continui e divertiti richiami. 
Mai l’espressione una voce fuori dal coro è risultata più appropriata e, in tale occasione, le sono stato profondamente grato perché l’ilarità generale da lei innescata ha disinibito la classe intera, facilitando il mio esperimento canterino.

In molte altre occasioni però, lo ammetto, ho apostrofato Zahra, tra me e me, col francesismo che grandi esperti di psicologia dell’insegnamento hanno coniato per la categoria di discenti cui lei appartiene: scassacazzo.

Come spesso fanno le persone che hanno qualcosa da insegnarti, Zahra mi ha messo un po’ in crisi. Perché si sa, è quando non sai più che pesci prendere che di solito viene il bello.
Con strategie didattiche estemporanee, ho provato a darle l’attenzione di cui mi sembrava dichiararsi affamata, ma la cosa ha funzionato solo fino a un certo punto. 
Quando faceva comunella con una sua connazionale, provocando per troppo tempo un piacevole sottofondo di suoni gutturali, ho provato a farle vedere il confine con una scenetta simpatica. 
Mi mettevo un pennarello tra il labbro superiore e le narici, a mo’ di baffo e, imitando in modo caricaturale quei modelli che ho sempre rifiutato, puntavo l’indice dicendo con la voce grossa: “Se non la smettete vi divido, eh!”.
Ma la cosa mi è tornata contro come un boomerang perché lei finiva per divertirsi sempre di più.

Così, poco alla volta, Zahra è riuscita davvero nell’ardua impresa di farmi diventare in alcune occasioni autorevole, costringendomi ad indossare quell’abito formale che tengo in fondo all’armadio perché mi fa sentire goffo, impedito nei movimenti e che, sinceramente, trovo anche piuttosto pacchiano.
Accedere a delle parti di noi che ci stanno antipatiche costa sempre fatica, specie se lo facciamo, come nel mio caso, con qualcuno per cui, paradossalmente, proviamo anche affetto. Ma in fondo è un allenamento che serve a ricordarci che quelle parti esistono e che possiamo chiamarle in causa, quando la vita lo richiede, per difenderci da qualcuno per cui affetto non ne proviamo affatto.

Ieri, penultima lezione del corso, Zahra è arrivata in ritardo, ha fatto irruzione in classe coi suoi modi caciaroni e ha esibito un pacchetto, dicendo che era per me.
Son rimasto sorpreso, imbarazzato, e quando, pur essendo contento, le ho detto con gentilezza che non avrebbe dovuto, la sua risposta è stata: “Sì, invece! Perché tu sei maestro mio!”. 
L’enfasi messa sull’aggettivo possessivo che chiudeva la frase mi ha commosso più del gesto in sé. Davanti a tanta tenerezza, la mia crosta dura di retaggio cattolico, il cui mantra preferito è mea culpa, mi ha fatto ovviamente pentire di quel paio di episodi in cui sono stato un po’ severo con lei. 
(Il regalo l’ho aperto durante la pausa. Era un profumo, che mi sono spruzzato addosso in sua presenza. E, a dirla tutta, credo ci abbia pure ingarrato perché, io che in vita mia non ho usato altro che la colonia Roberts e gli olii essenziali, ieri sera, annusandomi il polso, l’ho trovato gradevole).

Infine, durante l’esercizio di produzione orale, i ragazzi dovevano dire qualcosa usando nella stessa frase l’imperfetto e il passato prossimo, raccontando un’azione durativa durante la quale ne avveniva una momentanea. Zahra ha capito bene la consegna e raccontato che il giorno prima, mentre andava al lavoro, hanno provato a rubarle il telefono.
In classe si è levato un coro di suoni che comunicavano dissenso e solidarietà nei suoi confronti. 
“Prof, ma tu sai dov’è cosa strana?” mi ha chiesto lei sgranando gli occhi. E, davanti alle mie spallucce, ha poi aggiunto: “Erano italiani!”.