venerdì 23 febbraio 2018

Erano italiani!



Nel progetto di italiano per stranieri che negli ultimi mesi mi ha visto coinvolto come insegnante, c’è una signora magrebina un po’ sui generis che ispira una simpatia pressoché immediata.
Una di quelle che però, a seconda dei momenti, possono tanto alleggerire la didattica quanto ostacolarla.
Zahra  (le attribuisco un nome di fantasia), è infatti un tantino accelerata:  spesso risponde alle domande senza ascoltarle, o addirittura prima che l’interlocutore abbia finito di formularle. 
Questo suo essere accelerata la fa talvolta deragliare, per quanto in buona fede, verso l’ostruzionismo nei confronti dei suoi compagni: risponde al posto loro o li corregge quando sbagliano, ovviamente prima che possa eventualmente decidere di farlo io.
Ha dato il meglio di sé già durante una delle prime lezioni, quando, per amalgamare la classe e abbassare il filtro affettivo, ho portato in aula la chitarra e provato a far cantare a tutti Quando sorridi di Neffa, di cui avevamo utilizzato i contenuti grammaticali.
Con il testo della canzone in mano e un’intonazione molto soggettiva, Zahra ha costantemente preceduto noialtri di un paio di battute, ostile a sincronizzarsi nonostante i miei continui e divertiti richiami. 
Mai l’espressione una voce fuori dal coro è risultata più appropriata e, in tale occasione, le sono stato profondamente grato perché l’ilarità generale da lei innescata ha disinibito la classe intera, facilitando il mio esperimento canterino.

In molte altre occasioni però, lo ammetto, ho apostrofato Zahra, tra me e me, col francesismo che grandi esperti di psicologia dell’insegnamento hanno coniato per la categoria di discenti cui lei appartiene: scassacazzo.

Come spesso fanno le persone che hanno qualcosa da insegnarti, Zahra mi ha messo un po’ in crisi. Perché si sa, è quando non sai più che pesci prendere che di solito viene il bello.
Con strategie didattiche estemporanee, ho provato a darle l’attenzione di cui mi sembrava dichiararsi affamata, ma la cosa ha funzionato solo fino a un certo punto. 
Quando faceva comunella con una sua connazionale, provocando per troppo tempo un piacevole sottofondo di suoni gutturali, ho provato a farle vedere il confine con una scenetta simpatica. 
Mi mettevo un pennarello tra il labbro superiore e le narici, a mo’ di baffo e, imitando in modo caricaturale quei modelli che ho sempre rifiutato, puntavo l’indice dicendo con la voce grossa: “Se non la smettete vi divido, eh!”.
Ma la cosa mi è tornata contro come un boomerang perché lei finiva per divertirsi sempre di più.

Così, poco alla volta, Zahra è riuscita davvero nell’ardua impresa di farmi diventare in alcune occasioni autorevole, costringendomi ad indossare quell’abito formale che tengo in fondo all’armadio perché mi fa sentire goffo, impedito nei movimenti e che, sinceramente, trovo anche piuttosto pacchiano.
Accedere a delle parti di noi che ci stanno antipatiche costa sempre fatica, specie se lo facciamo, come nel mio caso, con qualcuno per cui, paradossalmente, proviamo anche affetto. Ma in fondo è un allenamento che serve a ricordarci che quelle parti esistono e che possiamo chiamarle in causa, quando la vita lo richiede, per difenderci da qualcuno per cui affetto non ne proviamo affatto.

Ieri, penultima lezione del corso, Zahra è arrivata in ritardo, ha fatto irruzione in classe coi suoi modi caciaroni e ha esibito un pacchetto, dicendo che era per me.
Son rimasto sorpreso, imbarazzato, e quando, pur essendo contento, le ho detto con gentilezza che non avrebbe dovuto, la sua risposta è stata: “Sì, invece! Perché tu sei maestro mio!”. 
L’enfasi messa sull’aggettivo possessivo che chiudeva la frase mi ha commosso più del gesto in sé. Davanti a tanta tenerezza, la mia crosta dura di retaggio cattolico, il cui mantra preferito è mea culpa, mi ha fatto ovviamente pentire di quel paio di episodi in cui sono stato un po’ severo con lei. 
(Il regalo l’ho aperto durante la pausa. Era un profumo, che mi sono spruzzato addosso in sua presenza. E, a dirla tutta, credo ci abbia pure ingarrato perché, io che in vita mia non ho usato altro che la colonia Roberts e gli olii essenziali, ieri sera, annusandomi il polso, l’ho trovato gradevole).

Infine, durante l’esercizio di produzione orale, i ragazzi dovevano dire qualcosa usando nella stessa frase l’imperfetto e il passato prossimo, raccontando un’azione durativa durante la quale ne avveniva una momentanea. Zahra ha capito bene la consegna e raccontato che il giorno prima, mentre andava al lavoro, hanno provato a rubarle il telefono.
In classe si è levato un coro di suoni che comunicavano dissenso e solidarietà nei suoi confronti. 
“Prof, ma tu sai dov’è cosa strana?” mi ha chiesto lei sgranando gli occhi. E, davanti alle mie spallucce, ha poi aggiunto: “Erano italiani!”. 

lunedì 19 febbraio 2018

Sono io il tuo baccalà?



Siamo entrambi soli, seduti a due tavoli diversi della mia amata Scugnizza, una spartanissima trattoria nel cuore dei Vergini. Domenica piovosa, tarda ora di pranzo, partita del Napoli in corso, con conseguente clima di calma per le strade.
Ammazza che occhi grandi che hai, turista. Eppure, il campo visivo che delimitano sembra piuttosto ristretto: non include molto oltre al tavolo dove siedi. Anzi no, improvvisamente alzi lo sguardo e col telefono scatti delle foto alle pentole di rame appese al muro. Peccato tu ti perda tutto ciò che è incluso tra quest’ultimo e il tuo tavolo, me compreso.
Sarà complice il fatto che amo questo posto, e che tutte le volte che ci vengo mi sembra di stare a teatro, ma io, al contrario di te, mi guardo intorno con curiosità.
Oltre a te vedo due signore dell’est che mangiano in silenzio, un uomo che si fa la scarpetta con mezzo crocché di patate e Vincenzo, il figlio undicenne dei titolari, che, in un inglese improvvisato, del tutto sprovvisto di grammatica ma ricco di fantasia, cerca di tradurre Pomodorini del Piennolo a due turisti come te. Chissà di dove sei tu, non ho sentito il suono della tua voce.

Ho sbagliato tante volte ormai, dice l’incipit rassegnato di una delle mie canzoni preferite.
L’ultima volta che è success è stata pochi minuti fa, quando ho ordinato a Vincenzo gli spaghetti che, già lo so, mi faranno venire sonno. Almeno sono stato bravo a non cedere alla tentazione di un quartino di bianco. Tu invece ti tracanni un rosso frizzante come se fosse acqua.
Che oggi, quasi certamente, sto sbagliando su di te. Dovevo capire subito che non fai per me. Forse sei vittima di stitichezza emotiva e, posso sbagliarmi, ma temo tu non abbia molta fiducia nell’umanità. Sarebbe bastato osservare il tuo ombrello chiuso, appeso al pomello della sedia. Per carità, ti avranno detto che noi italiani siamo tutti ladri, specie al sud e ancor di più a Napoli. Oppure hai permesso al tuo passato di indurirti, alle tue cicatrici di renderti diffidente. 
Sai quanti ombrelli mi sono stati rubati, dopo che li ho lasciati nell’apposito recipiente posto all’ingresso di alcuni luoghi pubblici? Eppure continuo ad avere fiducia nel genere umano, a credere che le persone oneste siano più numerose dei mariuoli. Altrimenti non sarei qui a guardarti,  non mi fiderei neppure della mamma di Vincenzo, quando mi assicura che la pasta e fagioli la cucina senza metterci la cotica. 
Col rischio di farmi la strada del ritorno sotto l’acqua, il mio ombrello l’ho messo nel secchio vicino alla porta. Non vedi che il tuo sta sgocciolando a terra? Metteremo i piedi nella piccola chiazza d’acqua che sta formando e lasceremo le impronte ovunque.
Ma una volta in più, che cosa può cambiare, nella vita mia? Non muore nessuno, mentre fantastico che, una volta usciti da qui, ognuno sotto al proprio ombrello, ci andremo a mangiare un fiocco di neve da Poppella e ti farò vedere quant’è bello Palazzo dello Spagnuolo. Domattina sono libero e, se il 140 passa, ti potrei portare al Parco Virgiliano, uno dei posti più romantici che conosco.
E poi, chissà, magari nei prossimi mesi vengo da te a ricambiare la visita, che non so manco di dove sei, ma di dovunque tu sia, ci sarà un Ryanair, un Easyjet che mi ci porta, no?

Oh oh, finalmente i nostri sguardi si incontrano. Ma sono pochi secondi. Tu riabbassi rapidamente il tuo in direzione di ciò che stai mangiando. Potresti continuare a guardare me, che tanto, manco a farla apposta, in questo momento ho un fortissimo slancio di empatia verso il baccalà che hai nel piatto. Anzi, a dirla tutta, mi sento esattamente come lui.
Distolgo lo sguardo anch’io. Mi ritrovo di fronte un primo piano di Totò appeso al muro. Il principe, a differenza tua, sostiene lo sguardo. Fisso la sua bocca, senza capire se nell’angolo soffochi un ghigno di sfottò appena accennato o se il suo è un sorriso innocuo, benevolo e solidale.
Visto che ho lasciato l’ombrello all’ingresso e, in generale, dico di avere fiducia nell’umanità, nel dubbio scelgo la seconda ipotesi.