Nel
progetto di italiano per stranieri che negli ultimi mesi mi ha visto coinvolto
come insegnante, c’è una signora magrebina un po’ sui generis che ispira una
simpatia pressoché immediata.
Una
di quelle che però, a seconda dei momenti, possono tanto alleggerire la
didattica quanto ostacolarla.
Zahra
(le attribuisco un nome di fantasia), è
infatti un tantino accelerata: spesso risponde alle domande senza ascoltarle,
o addirittura prima che l’interlocutore abbia finito di formularle.
Questo suo
essere accelerata la fa talvolta
deragliare, per quanto in buona fede, verso l’ostruzionismo nei confronti dei
suoi compagni: risponde al posto loro o li corregge quando sbagliano,
ovviamente prima che possa eventualmente decidere di farlo io.
Ha
dato il meglio di sé già durante una delle prime lezioni, quando, per
amalgamare la classe e abbassare il filtro affettivo, ho portato in aula la
chitarra e provato a far cantare a tutti Quando
sorridi di Neffa, di cui avevamo utilizzato i contenuti grammaticali.
Con
il testo della canzone in mano e un’intonazione molto soggettiva, Zahra ha
costantemente preceduto noialtri di un paio di battute, ostile a sincronizzarsi
nonostante i miei continui e divertiti richiami.
Mai l’espressione una voce fuori dal coro è risultata più
appropriata e, in tale occasione, le sono stato profondamente grato perché
l’ilarità generale da lei innescata ha disinibito la classe intera, facilitando
il mio esperimento canterino.
In
molte altre occasioni però, lo ammetto, ho apostrofato Zahra, tra me e me, col
francesismo che grandi esperti di psicologia dell’insegnamento hanno coniato
per la categoria di discenti cui lei appartiene: scassacazzo.
Come
spesso fanno le persone che hanno qualcosa da insegnarti, Zahra mi ha messo un
po’ in crisi. Perché si sa, è quando non sai più che pesci prendere che di
solito viene il bello.
Con
strategie didattiche estemporanee, ho provato a darle l’attenzione di cui mi
sembrava dichiararsi affamata, ma la cosa ha funzionato solo fino a un certo
punto.
Quando faceva comunella con una sua connazionale, provocando per troppo
tempo un piacevole sottofondo di suoni gutturali, ho
provato a farle vedere il confine con una scenetta simpatica.
Mi mettevo un
pennarello tra il labbro superiore e le narici, a mo’ di baffo e, imitando in
modo caricaturale quei modelli che ho sempre rifiutato, puntavo l’indice
dicendo con la voce grossa: “Se non la smettete vi divido, eh!”.
Ma
la cosa mi è tornata contro come un boomerang perché lei finiva per divertirsi
sempre di più.
Così,
poco alla volta, Zahra è riuscita davvero nell’ardua impresa di farmi diventare
in alcune occasioni autorevole, costringendomi ad indossare quell’abito formale
che tengo in fondo all’armadio perché mi fa sentire goffo, impedito nei movimenti
e che, sinceramente, trovo anche piuttosto pacchiano.
Accedere
a delle parti di noi che ci stanno antipatiche costa sempre fatica, specie se
lo facciamo, come nel mio caso, con qualcuno per cui, paradossalmente, proviamo
anche affetto. Ma in fondo è un allenamento che serve a ricordarci che quelle parti esistono e che possiamo chiamarle
in causa, quando la vita lo richiede, per difenderci da qualcuno per cui
affetto non ne proviamo affatto.
Ieri,
penultima lezione del corso, Zahra è arrivata in ritardo, ha fatto irruzione in
classe coi suoi modi caciaroni e ha esibito un pacchetto, dicendo che era per
me.
Son
rimasto sorpreso, imbarazzato, e quando, pur essendo contento, le ho detto con
gentilezza che non avrebbe dovuto, la sua risposta è stata: “Sì, invece! Perché
tu sei maestro mio!”.
L’enfasi messa sull’aggettivo possessivo che chiudeva
la frase mi ha commosso più del gesto in sé. Davanti a tanta tenerezza, la mia
crosta dura di retaggio cattolico, il cui mantra preferito è mea culpa, mi ha fatto ovviamente pentire di quel paio di episodi
in cui sono stato un po’ severo con lei.
(Il regalo l’ho aperto durante la
pausa. Era un profumo, che mi sono spruzzato addosso in sua presenza. E, a
dirla tutta, credo ci abbia pure ingarrato perché, io che in vita mia non ho
usato altro che la colonia Roberts e gli olii essenziali, ieri sera,
annusandomi il polso, l’ho trovato gradevole).
Infine,
durante l’esercizio di produzione orale, i ragazzi dovevano dire qualcosa
usando nella stessa frase l’imperfetto e il passato prossimo, raccontando
un’azione durativa durante la quale ne avveniva una momentanea. Zahra ha capito
bene la consegna e raccontato che il giorno prima, mentre andava al lavoro,
hanno provato a rubarle il telefono.
In
classe si è levato un coro di suoni che comunicavano dissenso e solidarietà nei
suoi confronti.
“Prof, ma tu sai dov’è cosa strana?” mi ha chiesto lei
sgranando gli occhi. E, davanti alle mie spallucce, ha poi aggiunto: “Erano
italiani!”.