sabato 12 ottobre 2019

Un centimetro al giorno




A volte siamo capaci di fare di tutto, pur di non fare l’unica cosa che desideriamo veramente.
Magari fosse una forma lucida di abnegazione, un voto consapevole di infelicità.
Purtroppo non è un’amputazione, non esce sangue e non ci sono cicatrici, almeno apparentemente.
Non c’è diagnosi, prognosi, decorso né convalescenza. In realtà stai benissimo.
Manca perfino un evento spartiacque, un trauma da scaraventare prima nell’oblio e da far riemergere poi attraverso ricordi confusi.
Succede un poco alla volta, abituandosi a fare spallucce, allenandosi a distogliere lo sguardo, continuando a ripetere: “Poi vediamo”.
Si possono coprire distanze enormi indietreggiando di un centimetro al giorno.

domenica 18 agosto 2019

Auguri, Soviet Kitsch!


Il 18 Agosto del 2004 usciva "Soviet Kitsch" di Regina Spektor.
Lo avrei scoperto, come molta della musica che ascoltavo all'epoca, grazie al mio amico Sergio, che mi faceva conoscere artisti nuovi tramite continui omaggi di cd pezzotti e  compilation miste.
Sì, "Compilation", all'epoca non si chiamavano mica "Playlist" e la musica, tra persone che si volevano bene, era uno scambio che passava ancora attraverso la materia.

Lo conobbi un po' in ritardo, Soviet Kitsch.
Allattava ancora dal grosso seno di sua madre Regina, che ha una sesta, ma indossava già salopette da 12 mesi e si esprimeva in balbettii, onomatopee e strane lallazioni, proprio secondo lo stile materno.
Ma che genere di musica era? Buh.

Erano canzoni dalla struttura standard, scritte e suonate da una ragazza bellissima e buffa che aveva studiato pianoforte classico, ma che le cantava in modo quasi comico, a tratti come un soprano, a tratti come una bambina, spesso dando l'impressione di essere completamente ubriaca.
La verità è che era un disco punk.
Non nei suoni  (ma anche sì: basti ascoltare "Your honor"), ma nel karma e nell'attitudine sì, profondamente.

Nel giro di poco tempo la sua mamma sarebbe diventata famosa, "Fidelity" ci avrebbe a lungo perseguitato in radio, il suo bellissimo video sarebbe stato trasmesso a tutte le ore su "All Music".
Sarebbero arrivati altri dischi ben vestiti, dal look accattivante, canzoni che sarebbero diventate sigle di altrettanto famose serie televisive, e quell'album sarebbe rimasto una cosa a parte nella discografia della sua autrice: un gioiello ruspante, sottoprodotto e spontaneo.

Io nel frattempo, un'estate, avrei trovato il coraggio di esibirmi per strada. 
In vacanza nel natio Salento, avevo scelto il lungomare di Santa Maria al Bagno e, senza amplificazione, sovrastato da un vicino karaoke, con uno scirocco che mi incollava i capelli sulla fronte e mi scordava una chitarra che non sapevo accordare, cominciai proprio da "Sailor Song", contenuta in quell'album del 2004, perché quel walzer di tre accordi aveva per me qualcosa di magico e rassicurante.
Una coppietta mi chiese se era una canzone di Bob Dylan e un bambino che si era avvicinato ad ancheggiare, mi mise un euro nel fodero della chitarra, incoraggiato da sua madre. 

Beh, auguri, Soviet Kitsch, che ti stai facendo grande.
Solo oggi, tramite un post su Instagram di mammata Regina Spektor, vengo a sapere che, come me, sei un Leone atipico, di quelli che con le mani smuovono in avanti l'aria e bruciano di nascosto, mandando in crisi gli esperti delle stelle.
Oggi hai quindici anni e no, non "piangi solo in bagno per la festa del tuo compleanno", ma sei un bellissimo adolescente silenziosamente ribelle.

domenica 23 giugno 2019

Il Solstizio della Ragazza con gli Occhi Belli







L’estate è una grandissima stronza perché, dal 21 Giugno in poi, giorno del solstizio, comincia impercettibilmente a sottrarre luce alle giornate.
Proprio quel giorno il mio infradito si è arreso, rompendosi. Complice il fatto che si trattasse di quello che calzava il piede destro, connesso all’energia yang, tale episodio mi ha instillato il dubbio che la stagione appena cominciata sarebbe stata all’insegna della gestione dell’imprevisto.


In serata sono andato a sentire il concerto di una ragazza dagli occhi belli, su un terrazzo che, sebbene fosse a pochi passi da casa mia, non avevo mai visto.
C’è chi canta per vanità, per stare al centro dell’attenzione, chi per fare acrobazie vocali e sentirsi dire che è bravo, chi, come gli uccelli in gabbia, per provare a trasformare la rabbia in qualcos’altro.
Ma c’è anche qualcuno che, nonostante la bellezza della propria voce, canta con una naturalezza disarmante, come se non stesse facendo altro che sganciarsi un bottone per renderti partecipe di una parte nascosta di sè, come se ti facesse cenno di entrare a casa sua e sederti, che il caffè sta già sul fuoco.
La ragazza con gli occhi belli, che appartiene a quest’ultima categoria, appena ha cominciato a cantare è riuscita a fare quel piccolo miracolo tipico di certi artisti quando li incontri attraverso la loro opera o la loro performance: sebbene fossi distante fisicamente da lei, mi sono sentito preso per mano e, mentre i nostri palmi erano l’uno contro l’altro, e scivolavano un poco per via del sudore,  ha fatto diventare progressivamente mia quella che in origine era una sua emozione. Il tutto è perfino accaduto senza che me rendessi conto: un po’ come quando ti innamori, me ne sono accorto quand’era già successo.
Sembrava una presa per mano di collettiva, perché da parte del pubblico si avvertiva un affetto nei suoi confronti che correva rapidamente come un virus, aumentando via via le fila dei contagiati, come un girotondo invisibile in cui lei, dal palco, ci teneva tutti presi per mano e man mano si aggiungeva qualcun altro, facendo diventare il girotondo più grande.


Ciò con cui ci teneva stretti per mano erano insolite e personalissime canzoni d’amore.
Il primo colpo forte al cuore è arrivato con un pezzo sull’amore non corrisposto ma raccontato con un particolare stratagemma narrativo: l’anello debole, la persona rifiutata, si mette nei panni di chi non ricambia, dandogli voce, immaginando cosa direbbe: “Scordami, come se fossi una chitarra, come se fossi quella cosa sfuggita alla lista delle cose da fare”.
Due sue amiche l’hanno raggiunta sul palco. Una delle due la conosco, dicono che ci assomigliamo e sembriamo fratelli. Un periodo che portavo i baffi, mi mandò una sua foto in cui si era messa, tra il labbro superiore e il naso, un ritaglio di buccia d’arancio, scrivendo: “Adesso posso, dirlo: sono te”. Le persone, notando una somiglianza estetica, non sanno di intravedere probabilmente una somiglianza più sottile e nascosta. Quando hanno suonato tutte e tre insieme sono riuscite a tradurre in musica tutta la loro complice sorellanza e ce ne hanno resi partecipi senza parsimonia.


La serata sembrava così perfetta e io così altrove, che alla fine è venuto a riportarmi a terra il senso di gravità, interpretato da quattro ragazzi che si sono messi a parlare alle mie spalle.
All’inizio ho continuato a tenere l’ascolto concentrato sulla voce della ragazza con gli occhi belli e la mia attenzione focalizzata all’interno del girotondo.
Ma il volume delle loro voci è aumentato. Son ragazzi, mi son detto giustificandoli, come se improvvisamente fossi diventato un ottuagenario. Nel loro vociare si sono poi inserite anche delle risate. Stanno sfuggendo dall’emozione dell’ascolto, non hanno il coraggio di farsi prendere, non vogliono entrare nel girotondo, mi sono detto con un po’ di inevitabile saccenza, sentendomi più fortunato di loro.
Interrotto l’esercizio di empatia, sono ritornato al fastidio che stavo provando e al fatto che loro ne fossero gli artefici. Che palle, mi son detto, mi tocca lavorare anche di venerdì sera. E così ho fatto. Dopo aver preso fiato mi sono girato verso di loro, ho messo la mano sulla spalla a quello che mi stava più vicino e, con un filo di voce ho detto: “Ragazzi, vi posso chiedere un favore?”.
Per qualche secondo non hanno risposto, fissandomi con gli occhi sbarrati, pensando forse che volessi una cartina, un filtro, qualche spiccio.
Quando ho ripetuto per la seconda volta la domanda, qualcuno ha annuito e, dopo aver detto che il favore richiesto consisteva nell’abbassare il tono della voce, loro sono entrati perfettamente in quel momentaneo gioco di ruolo. Sono regrediti in un attimo di vent’anni a testa, e, esattamente come i bambini con cui lavoro, hanno attivato una dinamica di gruppo in cui i copioni individuali erano ben rispettati: uno ha guardato per terra, l’altro tratteneva una risata, uno, simulando indifferenza, mi ha detto: “Ma io non sto facendo niente”, l’ultimo, facendosi carico della colpa collettiva, mi ha detto: “Scusa”. Mi sono girato, tornando dentro al cerchio invisibile, ma dopo qualche minuto di silenzio loro hanno ricominciato.


Il concerto nel frattempo si avvicinava alla fine. La ragazza con gli occhi belli ci ha introdotti verbalmente ad una canzone diversa dalle altre. Parlandone come di un esperimento nato quasi sotto forma di commissione, ci ha detto di aver provato ad adattare in napoletano un pezzo di Robert Wyatt. Ho sbarrato gli occhi, credendo di aver sentito male, ma l’amica che mi era affianco ha annuito dando ragione alle mie orecchie.
Con una voce dolce e straziante allo stesso tempo, lei ci ha raccontato il dolore di una madre separata  dal proprio figlio: “Cuore mio, il mondo è infame: siamo solo schiuma di mare”.
Ḕ calato un silenzio perfetto. Si sono ammutoliti e messi in ascolto anche i quattro ragazzi alle mie spalle. Eravamo finalmente tutti presi per mano in un girotondo invisibile: il piccolo miracolo che solo certi artisti riescono a compiere.
La ragazza con gli occhi belli, tra le altre cose, ci ha anche detto come mai, dopo un po’ di tempo in cui era rimasta in silenzio, ha deciso di ricominciare a cantare proprio il giorno del solstizio d’estate, invitando tutti noi a fare un pensiero di rinascita.


L’indomani, una serie di coincidenze ha voluto che fossi, stranamente, del tutto libero.
Mentre quella grandissima stronza dell’estate, appena cominciata, mi stava già togliendo dal piatto un cucchiaino di luce, mentre si divertiva sadicamente a depistarci tutti con grandinate e nubifragi, boicottando quella che doveva essere la mia prima giornata di mare, ne ho approfittato per fare la casalinga in calore, cominciando dal mettere in una busta della spazzatura almeno tre paia di scarpe rotte, infradito compresi. Me ne comprerò un altro pario, camminerò scalzo, userò scarpe chiuse e fantasmini? Ancora non lo so ma, ad ogni modo, una di queste tre ipotesi diventerà per forza realtà.

Evitando di chiedere a me stesso da quanto tempo non lo facessi, ho pulito il balcone, strappato foglie secche, tagliato ramoscelli di rampicante con radici sventolanti fuoriuscite dal vaso, grattato con la spugna grumi di terra incollati alle piastrelle.
Mi sono rammaricato per la rosa del deserto, che anche quest’anno non è riuscita a fiorire. Nè io nè lei siamo stati capaci di difenderla dai parassiti che amano nutrirsi dei suoi boccioli. Non riesce a entrare nel girotondo invisibile, mi sono detto. Sia che non voglia coscientemente, e sia che pensi di non essere all’altezza, non posso costringerla, mi sono detto.




Allenato dalla vita a vedere sempre con facilità quello che manca e mai quello che c’è, mi stavo gingillando addolorandomi per lei e con lei, senza perdere l’occasione per maledire ed accusare il giardiniere fallito che è in me.
E mentre, per inerzia, facevo qualcosa che ci viene benissimo ormai in automatico, senza sforzo, ho quasi rischiato di non accorgermi che, a differenza dell’ingombrante rosa del deserto che monopolizza il balcone ostentando pateticamente il suo dolore, qualcuno, in un angolo, vicino alla ringhiera e nascosto da piante più alte, aveva compiuto in silenzio un gesto importante, forse un rituale di rinascita in occasione del solstizio di quella grandissima stronza dell’estate.
Era il piccolo cactus, diventato papà di due gemelli.



sabato 15 giugno 2019

Se un giorno busserai alla mia porta





A volte gli amanti ritornano. Ma siamo nel 2019, e lo fanno in un modo del tutto contemporaneo.
“Se un giorno busserai alla mia porta” era il titolo di una fiction Rai trasmessa quand’ero bambino. Non ricordo quasi niente della miniserie, anzi, dello sceneggiato, come si diceva all’epoca, ma quel titolo lo trovavo così bello che non l’ho più scordato.

A distanza di trent’anni, ci siamo così barricati nelle nostre case, che alla porta non bussa più nessuno della cui visita non siamo stati preventivamente informati: le letture delle utenze le comunichiamo a distanza, i testimoni di Geova cercano di attaccare bottone facendo le loro domande bizzarre al citofono, e sulla soglia del portone condominiale abbiamo apposite cassette comuni per il materiale pubblicitario, così che chi lo distribuisce non ci infastidisca.
Per qualche strano motivo, gli unici temerari che riescono ancora a beccarti in casa senza preavviso sono gli agenti immobiliari. Sì, in linea coi tempi, sono diventati ambigui anche loro: insistono a darti l’opuscolo delle offerte, anche se provi senza successo a dirgli che sei fuori dal loro target, e subito dopo cercano di estorcerti informazioni su possibili case in vendita nel tuo palazzo.

A volte gli amanti ritornano, dicevamo, ma siamo nel 2019, e anziché bussare alla tua porta, ti sbloccano su Whatsapp. Chiaramente, per farlo devono averti precedentemente bloccato, che tu ne te sia accorto oppure no.
Ti svegli, e tra qualche foto pacchiana di caffè fumanti e rose spampanate che augurano il buongiorno, trovi un “Ehi ciao come stai?” del tutto imprevisto.
Così, insieme a te si sveglia di soprassalto il tuo ego, e lo stupore aumenta quando ti accorgi che il messaggio è stato inviato alcune ore prima, nel cuore della notte.
Mentre sei ancora in pigiama e con le cispe agli occhi, il tuo ego, che nel frattempo si è già lavato e vestito, urla che se qualcuno ti scrive di notte, il vero messaggio è l’orario.

Fare i sostenuti è una cosa anni novanta come gli squilli e gli sms.
Non solo il rancore non è più cosa di cui vantarsi, ma è diventato addirittura penalizzante: rischi di sembrare una persona irrisolta, bloccata nel passato. Orsù, rispondi con poche parole gentili: chi sta dall’altro lato del touch screen penserà che nel frattempo ti sei costruito una vita bellissima e sei in pace col mondo intero, te stesso compreso.
E infatti rispondi. Ovviamente dici sbrigativamente di stare bene, come lo diresti al portiere, al fruttivendolo, mica ti metti ad attaccare pipponi di prima mattina.
Nel frattempo, dopo che ti sei sincronizzato col tuo ego, lavandoti, vestendoti e facendo colazione con lui, la giornata è ufficialmente incominciata e il ricordo di quel messaggio inaspettato si fa da parte. Il tuo ego invece lo ripesca appena può, è ansioso di comunicarlo ai tuoi amici più cari e, appena ti distrai, lui prende il telefono e manda qualche vocale di nascosto: “Indovina chi mi ha scritto?”.

Più tardi ti risincronizzi col tuo ego che, come avrai capito, sta sempre più avanti di te, e ti ricordi anche tu di quel messaggio. Scorri in basso le chat e, a distanza di ore ed ore, trovi la tua risposta trafitta, in basso a destra, solo dalla prima, dolorosissima spunta.
Non ci credi, eppure è così; sei stato di nuovo bloccato. Eri stato sbloccato solo per poche ore, o per pochi minuti, chi può dirlo? E in fondo, che cosa cambierebbe saperlo? Forse sei stato sbloccato addirittura per pochi secondi, quelli necessari a scrivere “Ehi ciao come stai?”.
Dopo che ti è stato rivolto un saluto, ti è stato negato il diritto ad un’eventuale replica.
Mentre aprivi la bocca per darle fiato, ti sei accorto di parlare da solo. Ti è stata fatta una domanda, ma la risposta, evidentemente, non era importante. Come in uno scherzo, qualcuno ha bussato alla porta e quando sei andato ad aprire non c’era nessuno. Con la differenza che, essendo la cosa avvenuta su Whatsapp, sai a chi apparteneva la mano che ha bussato.

Ti attraversano mille domande. E va bene, era forse la notte dei morti viventi e un fantasma del passato ha deciso di contattarti. Sebbene effimero, si è trattato di un gesto di coraggio,o di vigliaccheria? Tra il primo e la seconda può passarci un centimetro o un chilometro.
Evidentemente chi ti ha scritto non stava neppure facendo un’indagine di mercato, una di quelle per verificare di essere ancora sulla piazza.  Ha rinunciato perfino alla soddisfazione di sapere che avresti risposto, non sa manco se, dopo aver aperto la porta, l’avresti richiusa sbattendotela alle spalle o l’avresti spalancata facendogli cenno di accomodarsi. Sei incazzato, sei sereno, fai spallucce? In ogni caso non gliene frega niente.

Ti chiedi come sarebbero andate le cose ai tempi del telefono fisso, quando, al tuo famigliare che stava per rispondere, potevi chiedere di negare la tua presenza in casa. Sarebbe forse andata diversamente quando gli sms si pagavano, quando esistevano addirittura i costi di ricarica, e per risparmiare i caratteri si scriveva così, ContenendoGliSpaziERendendoMaiuscolaLaPrimaLetteraDiOgniParola.

Così ti viene l’illuminazione dello stratagemma vintage. Ma sì, viva l’amarcord anni novanta, viva l’espressione del rancore, crepi il copione della persona risolta e in pace col mondo.
E proprio mentre rimpiangi l’epoca degli sms, ti viene in mente che puoi mandargliene uno. Te lo suggerisce il fatto che non si possa bloccare nessuno, impedendogli di mandarti dei messaggini, e quasi ti rasserena l’illusione che un sms debba per forza arrivare a destinazione.
Così chiedi al contatto in questione, visto il suo recente comportamento, di fornirti notizie fresche sulla sua salute mentale.
Ovviamente non risponde, ma in compenso impazzisce di riflesso il tuo gestore telefonico, che non ti vedeva mandare un sms da anni, e ti risponde più volte che il tuo credito è insufficiente per inviare ulteriori messaggi.
O forse, più semplicemente, il tuo gestore telefonico ti vuole bene, premia la fedeltà che nutri per lui da anni, e vuole solo consigliarti di non accanirti a percorrere quella strada sbagliata, che tanto non ti porterebbe da nessuna parte.
Gli sms sono come gli errori, no? Ḕ giusto pagarli, così da dare il giusto peso a ciò che si presume vogliamo dire.

Ḕ vero che ci ricorderanno come la generazione che non trovava nessuno e ci metteva un minuto a lasciarsi? Non lo so. Di sicuro, quello che spesso sembra un dialogo tra due persone, a ben vedere è soltanto un incrocio tra i monologhi dei loro rispettivi ego: i poveretti fingono, neanche troppo inconsapevolmente, di rivolgersi l’uno all’altro pur di non parlare al muro.
Un po’ come un agente immobiliare che insiste a dare l’opuscolo delle offerte a qualcuno che non lo vuole e che, dal canto suo, finge di non sapere che nei dintorni ci sono case in vendita.

giovedì 30 maggio 2019

Un italiano... nero?



Parlare di immigrazione, inclusione e nuovi italiani diventa ogni giorno più difficile: si è costretti a ripetere cose già dette, si inciampa nei luoghi comuni e ci si arrabbia facilmente.Tra zittirsi e sputare veleno, ogni tanto si intravede una via intermedia: quella di provare a dire le cose diversamente, cambiando registro.

Un giorno, mentre ero sovrappensiero, mi sono ritrovato a cantare, senza volerlo, il ritornello di quella che, dopo “O sole mio”, è probabilmente la canzone italiana più famosa all’estero e nel cui testo vengono elencati una serie di stereotipi patriottici: “L’italiano” di Toto Cutugno.Per gioco, mi sono ritrovato a smontare le parole del ritornello, come se fosse un giocattolo e,attingendo agli stereotipi, ho provato a mettermi nei panni di qualcuno che, tra la serietà e lo sfottò, tra la rabbia e le risate, prova a rispondere a chi gli dice: “Torna al tuo paese!”.


Non molto tempo fa ho fatto ascoltare il risultato di quel gioco al mio amico rapper Sebastiano Sanna, in arte Seb, che a sua volta ha poi scritto delle rime raccontando gli stereotipi da un’altra angolazione.Così, ciò che purtroppo avviene difficilmente nella realtà, è successo con naturalezza in musica: uno scontro verbale tra due persone che la pensano molto diversamente ha cambiato forma, diventando un ritornello cantato all’unisono.


Questa canzone si chiama “Un italiano nero”: io, Seb e Giuseppe di Taranto ve la facciamo ascoltare domani sera al Birrificio Flegreo (in via Ilioneo 48, a Bagnoli), all’interno di una serata che abbiamo chiamato “Triplo Malto”.Venite, se non ce la cantiamo e suoniamo da soli!

lunedì 11 marzo 2019

Ma tu quanto zucchero vuoi?


Arrivasti a piedi dai Ponti Rossi
Fuori pioveva, eri senza ombrello
Ti chiesi: "Cos'è quella scritta sulla nuca?"
E finsi di capire la risposta.

Avanzammo a piedi, sui nostri passi
Fuori pioveva, anche su via Cirillo
Chiedesti: "Sei bravo a fare il caffè?"
Ed io: "Ma tu quanto zucchero vuoi?".

Salimmo a piedi, senza rimorsi
Dentro pioveva, mi sentivo già brillo
Ero nudo: "Cos'è quella macchia sulla gamba?"
Fingesti di capire la risposta.

Te ne andasti a piedi, con gli occhi rossi
Fuori smetteva, rifiutasti l'ombrello
Ti dissi: "Scrivimi quando sei a casa"
Mi parve tu accettassi la richiesta.

Ti ritrovai in un bar di Carlo Terzo
"Me lo dai un cornetto integrale?"
"Mi dispiace: li abbiamo finiti"
La tua bugia ad un ragazzo di via Foria.