domenica 23 giugno 2019

Il Solstizio della Ragazza con gli Occhi Belli







L’estate è una grandissima stronza perché, dal 21 Giugno in poi, giorno del solstizio, comincia impercettibilmente a sottrarre luce alle giornate.
Proprio quel giorno il mio infradito si è arreso, rompendosi. Complice il fatto che si trattasse di quello che calzava il piede destro, connesso all’energia yang, tale episodio mi ha instillato il dubbio che la stagione appena cominciata sarebbe stata all’insegna della gestione dell’imprevisto.


In serata sono andato a sentire il concerto di una ragazza dagli occhi belli, su un terrazzo che, sebbene fosse a pochi passi da casa mia, non avevo mai visto.
C’è chi canta per vanità, per stare al centro dell’attenzione, chi per fare acrobazie vocali e sentirsi dire che è bravo, chi, come gli uccelli in gabbia, per provare a trasformare la rabbia in qualcos’altro.
Ma c’è anche qualcuno che, nonostante la bellezza della propria voce, canta con una naturalezza disarmante, come se non stesse facendo altro che sganciarsi un bottone per renderti partecipe di una parte nascosta di sè, come se ti facesse cenno di entrare a casa sua e sederti, che il caffè sta già sul fuoco.
La ragazza con gli occhi belli, che appartiene a quest’ultima categoria, appena ha cominciato a cantare è riuscita a fare quel piccolo miracolo tipico di certi artisti quando li incontri attraverso la loro opera o la loro performance: sebbene fossi distante fisicamente da lei, mi sono sentito preso per mano e, mentre i nostri palmi erano l’uno contro l’altro, e scivolavano un poco per via del sudore,  ha fatto diventare progressivamente mia quella che in origine era una sua emozione. Il tutto è perfino accaduto senza che me rendessi conto: un po’ come quando ti innamori, me ne sono accorto quand’era già successo.
Sembrava una presa per mano di collettiva, perché da parte del pubblico si avvertiva un affetto nei suoi confronti che correva rapidamente come un virus, aumentando via via le fila dei contagiati, come un girotondo invisibile in cui lei, dal palco, ci teneva tutti presi per mano e man mano si aggiungeva qualcun altro, facendo diventare il girotondo più grande.


Ciò con cui ci teneva stretti per mano erano insolite e personalissime canzoni d’amore.
Il primo colpo forte al cuore è arrivato con un pezzo sull’amore non corrisposto ma raccontato con un particolare stratagemma narrativo: l’anello debole, la persona rifiutata, si mette nei panni di chi non ricambia, dandogli voce, immaginando cosa direbbe: “Scordami, come se fossi una chitarra, come se fossi quella cosa sfuggita alla lista delle cose da fare”.
Due sue amiche l’hanno raggiunta sul palco. Una delle due la conosco, dicono che ci assomigliamo e sembriamo fratelli. Un periodo che portavo i baffi, mi mandò una sua foto in cui si era messa, tra il labbro superiore e il naso, un ritaglio di buccia d’arancio, scrivendo: “Adesso posso, dirlo: sono te”. Le persone, notando una somiglianza estetica, non sanno di intravedere probabilmente una somiglianza più sottile e nascosta. Quando hanno suonato tutte e tre insieme sono riuscite a tradurre in musica tutta la loro complice sorellanza e ce ne hanno resi partecipi senza parsimonia.


La serata sembrava così perfetta e io così altrove, che alla fine è venuto a riportarmi a terra il senso di gravità, interpretato da quattro ragazzi che si sono messi a parlare alle mie spalle.
All’inizio ho continuato a tenere l’ascolto concentrato sulla voce della ragazza con gli occhi belli e la mia attenzione focalizzata all’interno del girotondo.
Ma il volume delle loro voci è aumentato. Son ragazzi, mi son detto giustificandoli, come se improvvisamente fossi diventato un ottuagenario. Nel loro vociare si sono poi inserite anche delle risate. Stanno sfuggendo dall’emozione dell’ascolto, non hanno il coraggio di farsi prendere, non vogliono entrare nel girotondo, mi sono detto con un po’ di inevitabile saccenza, sentendomi più fortunato di loro.
Interrotto l’esercizio di empatia, sono ritornato al fastidio che stavo provando e al fatto che loro ne fossero gli artefici. Che palle, mi son detto, mi tocca lavorare anche di venerdì sera. E così ho fatto. Dopo aver preso fiato mi sono girato verso di loro, ho messo la mano sulla spalla a quello che mi stava più vicino e, con un filo di voce ho detto: “Ragazzi, vi posso chiedere un favore?”.
Per qualche secondo non hanno risposto, fissandomi con gli occhi sbarrati, pensando forse che volessi una cartina, un filtro, qualche spiccio.
Quando ho ripetuto per la seconda volta la domanda, qualcuno ha annuito e, dopo aver detto che il favore richiesto consisteva nell’abbassare il tono della voce, loro sono entrati perfettamente in quel momentaneo gioco di ruolo. Sono regrediti in un attimo di vent’anni a testa, e, esattamente come i bambini con cui lavoro, hanno attivato una dinamica di gruppo in cui i copioni individuali erano ben rispettati: uno ha guardato per terra, l’altro tratteneva una risata, uno, simulando indifferenza, mi ha detto: “Ma io non sto facendo niente”, l’ultimo, facendosi carico della colpa collettiva, mi ha detto: “Scusa”. Mi sono girato, tornando dentro al cerchio invisibile, ma dopo qualche minuto di silenzio loro hanno ricominciato.


Il concerto nel frattempo si avvicinava alla fine. La ragazza con gli occhi belli ci ha introdotti verbalmente ad una canzone diversa dalle altre. Parlandone come di un esperimento nato quasi sotto forma di commissione, ci ha detto di aver provato ad adattare in napoletano un pezzo di Robert Wyatt. Ho sbarrato gli occhi, credendo di aver sentito male, ma l’amica che mi era affianco ha annuito dando ragione alle mie orecchie.
Con una voce dolce e straziante allo stesso tempo, lei ci ha raccontato il dolore di una madre separata  dal proprio figlio: “Cuore mio, il mondo è infame: siamo solo schiuma di mare”.
Ḕ calato un silenzio perfetto. Si sono ammutoliti e messi in ascolto anche i quattro ragazzi alle mie spalle. Eravamo finalmente tutti presi per mano in un girotondo invisibile: il piccolo miracolo che solo certi artisti riescono a compiere.
La ragazza con gli occhi belli, tra le altre cose, ci ha anche detto come mai, dopo un po’ di tempo in cui era rimasta in silenzio, ha deciso di ricominciare a cantare proprio il giorno del solstizio d’estate, invitando tutti noi a fare un pensiero di rinascita.


L’indomani, una serie di coincidenze ha voluto che fossi, stranamente, del tutto libero.
Mentre quella grandissima stronza dell’estate, appena cominciata, mi stava già togliendo dal piatto un cucchiaino di luce, mentre si divertiva sadicamente a depistarci tutti con grandinate e nubifragi, boicottando quella che doveva essere la mia prima giornata di mare, ne ho approfittato per fare la casalinga in calore, cominciando dal mettere in una busta della spazzatura almeno tre paia di scarpe rotte, infradito compresi. Me ne comprerò un altro pario, camminerò scalzo, userò scarpe chiuse e fantasmini? Ancora non lo so ma, ad ogni modo, una di queste tre ipotesi diventerà per forza realtà.

Evitando di chiedere a me stesso da quanto tempo non lo facessi, ho pulito il balcone, strappato foglie secche, tagliato ramoscelli di rampicante con radici sventolanti fuoriuscite dal vaso, grattato con la spugna grumi di terra incollati alle piastrelle.
Mi sono rammaricato per la rosa del deserto, che anche quest’anno non è riuscita a fiorire. Nè io nè lei siamo stati capaci di difenderla dai parassiti che amano nutrirsi dei suoi boccioli. Non riesce a entrare nel girotondo invisibile, mi sono detto. Sia che non voglia coscientemente, e sia che pensi di non essere all’altezza, non posso costringerla, mi sono detto.




Allenato dalla vita a vedere sempre con facilità quello che manca e mai quello che c’è, mi stavo gingillando addolorandomi per lei e con lei, senza perdere l’occasione per maledire ed accusare il giardiniere fallito che è in me.
E mentre, per inerzia, facevo qualcosa che ci viene benissimo ormai in automatico, senza sforzo, ho quasi rischiato di non accorgermi che, a differenza dell’ingombrante rosa del deserto che monopolizza il balcone ostentando pateticamente il suo dolore, qualcuno, in un angolo, vicino alla ringhiera e nascosto da piante più alte, aveva compiuto in silenzio un gesto importante, forse un rituale di rinascita in occasione del solstizio di quella grandissima stronza dell’estate.
Era il piccolo cactus, diventato papà di due gemelli.



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