L’estate
è una grandissima stronza perché, dal 21 Giugno in poi, giorno del solstizio,
comincia impercettibilmente a sottrarre luce alle giornate.
Proprio quel
giorno il mio infradito si è arreso, rompendosi. Complice il fatto che si
trattasse di quello che calzava il piede destro, connesso all’energia yang,
tale episodio mi ha instillato il dubbio che la stagione appena cominciata
sarebbe stata all’insegna della gestione dell’imprevisto.
In serata
sono andato a sentire il concerto di una ragazza dagli occhi belli, su un
terrazzo che, sebbene fosse a pochi passi da casa mia, non avevo mai visto.
C’è chi
canta per vanità, per stare al centro dell’attenzione, chi per fare acrobazie
vocali e sentirsi dire che è bravo, chi, come gli uccelli in gabbia, per
provare a trasformare la rabbia in qualcos’altro.
Ma c’è anche
qualcuno che, nonostante la bellezza della propria voce, canta con una
naturalezza disarmante, come se non stesse facendo altro che sganciarsi un
bottone per renderti partecipe di una parte nascosta di sè, come se ti facesse
cenno di entrare a casa sua e sederti, che il caffè sta già sul fuoco.
La ragazza
con gli occhi belli, che appartiene a quest’ultima categoria, appena ha
cominciato a cantare è riuscita a fare quel piccolo miracolo tipico di certi
artisti quando li incontri attraverso la loro opera o la loro performance:
sebbene fossi distante fisicamente da lei, mi sono sentito preso per mano e,
mentre i nostri palmi erano l’uno contro l’altro, e scivolavano un poco per via
del sudore, ha fatto diventare progressivamente mia quella che in
origine era una sua emozione. Il tutto è perfino accaduto senza che me rendessi
conto: un po’ come quando ti innamori, me ne sono accorto quand’era già
successo.
Sembrava una
presa per mano di collettiva, perché da parte del pubblico si avvertiva un
affetto nei suoi confronti che correva rapidamente come un virus, aumentando
via via le fila dei contagiati, come un girotondo invisibile in cui lei, dal
palco, ci teneva tutti presi per mano e man mano si aggiungeva qualcun altro,
facendo diventare il girotondo più grande.
Ciò con cui
ci teneva stretti per mano erano insolite e personalissime canzoni d’amore.
Il primo
colpo forte al cuore è arrivato con un pezzo sull’amore non corrisposto ma
raccontato con un particolare stratagemma narrativo: l’anello debole, la
persona rifiutata, si mette nei panni di chi non ricambia, dandogli voce,
immaginando cosa direbbe: “Scordami, come se fossi una chitarra, come se fossi
quella cosa sfuggita alla lista delle cose da fare”.
Due sue
amiche l’hanno raggiunta sul palco. Una delle due la conosco, dicono che ci
assomigliamo e sembriamo fratelli. Un periodo che portavo i baffi, mi mandò una
sua foto in cui si era messa, tra il labbro superiore e il naso, un ritaglio di
buccia d’arancio, scrivendo: “Adesso posso, dirlo: sono te”. Le persone, notando
una somiglianza estetica, non sanno di intravedere probabilmente una
somiglianza più sottile e nascosta. Quando hanno suonato tutte e tre insieme
sono riuscite a tradurre in musica tutta la loro complice sorellanza e ce ne
hanno resi partecipi senza parsimonia.
La serata
sembrava così perfetta e io così altrove, che alla fine è venuto a riportarmi a
terra il senso di gravità, interpretato da quattro ragazzi che si sono messi a
parlare alle mie spalle.
All’inizio
ho continuato a tenere l’ascolto concentrato sulla voce della ragazza con gli
occhi belli e la mia attenzione focalizzata all’interno del girotondo.
Ma il volume
delle loro voci è aumentato. Son ragazzi, mi son detto giustificandoli, come se
improvvisamente fossi diventato un ottuagenario. Nel loro vociare si sono poi
inserite anche delle risate. Stanno sfuggendo dall’emozione dell’ascolto, non
hanno il coraggio di farsi prendere, non vogliono entrare nel girotondo, mi
sono detto con un po’ di inevitabile saccenza, sentendomi più fortunato di loro.
Interrotto
l’esercizio di empatia, sono ritornato al fastidio che stavo provando e al
fatto che loro ne fossero gli artefici. Che palle, mi son detto, mi tocca
lavorare anche di venerdì sera. E così ho fatto. Dopo aver preso fiato mi sono
girato verso di loro, ho messo la mano sulla spalla a quello che mi stava più
vicino e, con un filo di voce ho detto: “Ragazzi, vi posso chiedere un
favore?”.
Per qualche
secondo non hanno risposto, fissandomi con gli occhi sbarrati, pensando forse
che volessi una cartina, un filtro, qualche spiccio.
Quando ho
ripetuto per la seconda volta la domanda, qualcuno ha annuito e, dopo aver
detto che il favore richiesto consisteva nell’abbassare il tono della voce,
loro sono entrati perfettamente in quel momentaneo gioco di ruolo. Sono
regrediti in un attimo di vent’anni a testa, e, esattamente come i bambini con
cui lavoro, hanno attivato una dinamica di gruppo in cui i copioni individuali
erano ben rispettati: uno ha guardato per terra, l’altro tratteneva una risata,
uno, simulando indifferenza, mi ha detto: “Ma io non sto facendo niente”,
l’ultimo, facendosi carico della colpa collettiva, mi ha detto: “Scusa”. Mi
sono girato, tornando dentro al cerchio invisibile, ma dopo qualche minuto di
silenzio loro hanno ricominciato.
Il concerto nel frattempo si avvicinava alla fine. La ragazza con gli occhi belli ci ha
introdotti verbalmente ad una canzone diversa dalle altre. Parlandone come di
un esperimento nato quasi sotto forma di commissione, ci ha detto di aver
provato ad adattare in napoletano un pezzo di Robert Wyatt. Ho sbarrato gli
occhi, credendo di aver sentito male, ma l’amica che mi era affianco ha annuito
dando ragione alle mie orecchie.
Con una voce
dolce e straziante allo stesso tempo, lei ci ha raccontato il dolore di una
madre separata dal proprio figlio: “Cuore mio, il mondo è infame:
siamo solo schiuma di mare”.
Ḕ calato un
silenzio perfetto. Si sono ammutoliti e messi in ascolto anche i quattro
ragazzi alle mie spalle. Eravamo finalmente tutti presi per mano in un
girotondo invisibile: il piccolo miracolo che solo certi artisti riescono a
compiere.
La ragazza
con gli occhi belli, tra le altre cose, ci ha anche detto come mai, dopo un po’
di tempo in cui era rimasta in silenzio, ha deciso di ricominciare a cantare proprio
il giorno del solstizio d’estate, invitando tutti noi a fare un pensiero di
rinascita.
L’indomani,
una serie di coincidenze ha voluto che fossi, stranamente, del tutto libero.
Mentre
quella grandissima stronza dell’estate, appena cominciata, mi stava già
togliendo dal piatto un cucchiaino di luce, mentre si divertiva sadicamente a
depistarci tutti con grandinate e nubifragi, boicottando quella che doveva
essere la mia prima giornata di mare, ne ho approfittato per fare la casalinga
in calore, cominciando dal mettere in una busta della spazzatura almeno tre
paia di scarpe rotte, infradito compresi. Me ne comprerò un altro pario,
camminerò scalzo, userò scarpe chiuse e fantasmini? Ancora non lo so ma, ad
ogni modo, una di queste tre ipotesi diventerà per forza realtà.
Evitando di
chiedere a me stesso da quanto tempo non lo facessi, ho pulito il balcone,
strappato foglie secche, tagliato ramoscelli di rampicante con radici
sventolanti fuoriuscite dal vaso, grattato con la spugna grumi di terra
incollati alle piastrelle.
Mi sono
rammaricato per la rosa del deserto, che anche quest’anno non è riuscita a
fiorire. Nè io nè lei siamo stati capaci di difenderla dai parassiti che amano
nutrirsi dei suoi boccioli. Non riesce a entrare nel girotondo invisibile, mi
sono detto. Sia che non voglia coscientemente, e sia che pensi di non essere
all’altezza, non posso costringerla, mi sono detto.
Allenato
dalla vita a vedere sempre con facilità quello che manca e mai quello che c’è,
mi stavo gingillando addolorandomi per lei e con lei, senza perdere l’occasione
per maledire ed accusare il giardiniere fallito che è in me.
E mentre,
per inerzia, facevo qualcosa che ci viene benissimo ormai in automatico, senza
sforzo, ho quasi rischiato di non accorgermi che, a differenza dell’ingombrante
rosa del deserto che monopolizza il balcone ostentando pateticamente il suo
dolore, qualcuno, in un angolo, vicino alla ringhiera e nascosto da piante più
alte, aveva compiuto in silenzio un gesto importante, forse un rituale di rinascita
in occasione del solstizio di quella grandissima stronza dell’estate.
Era il
piccolo cactus, diventato papà di due gemelli.