La
gratitudine è uno stato d’animo di cui si parla poco, o probabilmente non a
sufficienza.
Per
un’assurda consuetudine la si accoglie con riluttanza, con scetticismo, figuriamoci
poi guardarla negli occhi, dichiararne la presenza, verbalizzarla. Roba da
sfigati, né?
Ma alla
consuetudine, per fortuna, c’è sempre un’alternativa, e le sue regole sono
tutto sommato semplici. Hai bisogno di aiuto, e per prima cosa ti concedi il
permesso di ammetterlo a te stesso, che hai bisogno di aiuto. Poi lo esterni,
talvolta addirittura in silenzio. E puff!, l’aiuto arriva.
Quando infine
capisci che la gratitudine funziona come tutti gli altri stati d’animo, e cioè
che si autoalimenta, ci sguazzi dentro, te la schizzi in faccia con le tue
stesse mani, ci fai il morto a galla, metti la testa sott’acqua, per poterla
sentirla pure nelle orecchie.
Cara mamma,
me lo ricordo ancora quel venerdì santo di tanti anni fa in cui mi dicesti di
non cantare “perché oggi muore Gesù”. Che poi, a dirla tutta, era ancora
mattina, mancavano diverse ore alla Via Crucis, mi stavi addirittura chiedendo
di portare il lutto in anticipo.
Da persona
intelligente quale sei, non solo ritirasti poco dopo il tuo divieto, ma
ammettesti per giunta di avermelo imposto solo perché, da bambina, lo subivi a tua
volta dalla tua, di madre.
Per un
attimo avevi pensato di portare avanti la tradizione di quel veto per
consuetudine, perché la tua parte razionale lo considerava giusto. Invece, nel
giro di pochi minuti, arrivasti perfino a confessarmi che il venerdì santo
andavi a cantare in giardino, dove tua madre, mia nonna, non avrebbe potuto
sentirti.
La
confessione di quella tua trasgressione fu un grande insegnamento: in un modo
forse un po’ goffo, camuffato da un atteggiamento incoerente, mi stavi dicendo,
tra le righe, che c’è un modo diverso di vedere le cose, che spesso di una cosa
è vero anche il suo contrario.
Mortacci, vado
a cantare in giardino anch’io, prima che il cuore mi scoppi di gioia.